Il primo paziente morto in Sicilia a causa del coronavirus ha cominciato a stare male nove giorni fa. Curato dal medico di famiglia con antibiotici e cortisone, come se fosse una semplice influenza, due giorni fa l’uomo si era aggravato, ma aveva rifiutato il ricovero, ieri il decesso.
Si tratta di un biologo di 58 anni, dipendente dell’Asp di Caltanissetta, deceduto ieri pomeriggio dopo essere stato ricoverato in gravi condizioni nell’ospedale Sant’Elia a causa di una polmonite fulminante.
Era stato lui stesso, il giorno prima, a rifiutare il ricovero in ospedale nonostante le insistenze dei sanitari. Una decisione che si è rivelata fatale.
A raccontare quanto accaduto è la moglie dell’uomo, anche lei biologa, che in queste ore, insieme alla figlia, sta vivendo insieme al dramma della perdita del marito anche la paura e la preoccupazione di un eventuale contagio.
Il dipendente dell’Asp ha cominciato ad accusare i primi sintomi della malattia il 4 marzo scorso e da quel giorno non è più uscito di casa per andare al lavoro.
«Mercoledì scorso mio marito ha cominciato ad avere febbre e dolori diffusi – racconta la donna – ha pensato di essersi preso un’influenza, anche perché era stato in campagna a fare alcuni lavori e aveva preso freddo. Il giorno dopo ha contattato telefonicamente il medico di famiglia che gli ha prescritto un antibiotico e del cortisone ma non ha avuto alcun miglioramento. Anzi, nonostante la terapia, le sue condizioni sono peggiorate».
A questo punto viene chiesto l’intervento della guardia medica: «Lunedì scorso, munito dei dispositivi di sicurezza – prosegue la donna – è venuto in casa un medico che ha prescritto il Rocefin. Il giorno dopo, non vedendo alcun miglioramento, io stessa ho telefonato al medico di famiglia riferendo che mio marito cominciava ad avere anche problemi respiratori. Ma lui ci ha detto di aspettare che la terapia facesse effetto».
Con il passare delle ore la situazione continua a peggiorare e in famiglia comincia a serpeggiare la paura, anche perchè il governo ha intanto esteso a tutto il paese le misure di sicurezza previste per le «zone rosse».
«Martedì abbiamo telefonato al 118 – ricostruisce la donna – ci ha risposto una operatrice che, sulla base dei sintomi riferiti, ha subito consigliato il ricovero in ospedale. Mio marito invece ha detto al telefono di voler rifiutare il ricovero, preferendo fidarsi del medico di famiglia. Un errore imperdonabile».
Ieri le cose precipitano, l’uomo ha la febbre alta e respira affannosamente. La moglie decide di rompere gli indugi e chiama il 118. Quando giunge in ospedale il suo quadro clinico è ormai gravemente compromesso: la Tac conferma una polmonite interstiziale, il paziente viene intubato e posto in isolamento in attesa dell’esito del tampone.
Ma ormai è troppo tardi, muore un paio d’ore dopo il ricovero. La moglie adesso non riesce a darsi pace: «Dovevo convincerlo a farsi ricoverare – continua a ripetere – dovevo dare ascolto a quella operatrice….».
La donna abbraccia la figlia che proprio due giorni fa era tornata a casa da Firenze, dove vive con il fratello, autodenunciandosi e mettendosi in isolamento.
«Ho letto sui social tante notizie false, come quella che avevamo partecipato a una festa – spiega – e invece abbiamo rispettato tutti i protocolli, non ci siamo mossi da casa. Mio marito – sottolinea – non aveva mai avuto problemi di salute. È bastata solo una settimana al virus per stroncarlo».