I prodotti sequestrati non avevano marchio “ingannevole”. Così il Tribunale del riesame di Messina che ha accolto il ricorso, presentato dall’avvocato Massimiliano Fabio, per il dissequestro di beni, requisiti dalla Guardia di Finanza di Capo d’Orlando ad un commerciante di origine cinese, lo scorso al 30 agosto.
I finanzieri orlandini, su delega della Guardia di Finanza di Roma, che stava indagando su una srl, ditta fornitrice dell’attività commerciale in questione, avevano fatto accesso nei locali del negozio per verificare che non vi fossero esposti prodotti con falso marchio “Made in Italy”. Durante il controllo, secondo quanto indicato dalle fiamme gialle, erano stati trovati 258 articoli per la casa che riportavano la bandiera tricolore italiana in risalto, mentre in realtà erano stati prodotti nella Repubblica Popolare Cinese. Gli articoli, ritenuti ingannevoli per il consumatore, erano stati quindi posti sotto sequestro, convalidato il giorno successivo dalla PM del Tribunale pattese Alice Parialò, mentre il fratello della titolare della ditta individuale, che ne curava gli interessi, gli acquisti e la gestione visto che la donna si trovava in Cina da un anno, è stato denunciato per la commercializzazione di prodotti con marchio ingannevole.
Lo scorso 14 settembre, in accoglimento del ricorso presentato dall’avvocato Massimiliano Fabio, legale dell’indagato, il Tribunale del Riesame di Messina, presieduto da Maria Giuseppa Scolaro, con i giudici Maria Vermiglio e Alessia Smedile, ha emesso ordinanza di dissequestro e restituzione dei 258 articoli requisiti. I beni oggetto del sequestro, infatti, non sono stati considerati contraffatti, visto che indicavano correttamente in etichetta il Paese di provenienza, mentre la bandiera italiana era riportata, insieme alle bandiere di altri Paesi europei per indicare la lingua con cui erano descritte le caratteristiche del prodotto stesso.
Tra l’altro, per i giudici, anche il fatto che i prodotti fossero esposti all’interno del negozio con insegne e personale di nazionalità cinese, non poteva trarre in inganno il consumatore, che qui non avrebbe potuto trovare esclusivamente prodotti “made in italy”. Ancora, per i giudici, non era necessario che gli articoli fossero trattenuti come materiale probatorio, per accertamenti tecnici sulla loro provenienza, visto che il luogo di origine degli stessi era ampiamente provato attraverso gli atti.